Oriana Fallaci y Alexos Panagulis
UN
HOMBRE:
“ Un libro acerca del héroe que lucha solo
por la libertad y la
verdad,
sin rendirse jamás,
y por eso muere a manos de todos:
los amos y los
siervos,
los violentos y los indiferentes.”
- Es tan difícil definir un esfuerzo que nos pertenece. Además, se trata de un libro tan complejo, de un libro que es en sí mismo muchos libros. Mira, podría decirte que es una novela ideológica: muchos de quienes la leyeron afirman que es sobre todo una novela ideológica. Y es verdad, sin duda es una novela ideológica. Podría decirte que es una novela-verdad: casi todos sus lectores la definen como una novela-verdad. Y es cierto, sin duda es también una novela-verdad. Podría decirte que es una novela acerca del Poder y el anti-Poder: en efecto, algunos la ven como una novela acerca del Poder y el anti-Poder. Lo cual es cierto, porque es también una novela acerca del Poder y el anti-Poder. Sin embargo, a juicio de otros es una novela clásica, desarrollada como la novela inglesa del ochocientos; otros la juzgan una novela moderna, construida con los elementos de la tragedia griega… el hecho real es que como todos los esfuerzos, como todos los trabajos, una vez concluido el libro tiene vida propia. Se convierte en lo que otros ven. Ya no es lo que el autor quería que fuese.
- Y tú, ¿qué querías que fuese?
- Un libro acerca de la soledad del individuo que rehúsa dejarse catalogar, esquematizar, encasillar por las modas, las ideologías, la sociedad y el Poder. Es un libro acerca de la tragedia del poeta que no quiere ser y no es hombre-masa, instrumento de quienes mandan, de los que prometen y asustan, de derecha o de izquierda o de centro, de la extrema derecha o de la extrema izquierda o del extremo centro. Un libro acerca del héroe que lucha solo por la libertad y la verdad, sin rendirse jamás, y por eso muere a manos de todos: los amos y los siervos, los violentos y los indiferentes.
Oriana Fallaci
Extracto de una entrevista publicada en la revista italiana Panorama.
Contraportada del libro Un hombre de Oriana Fallaci
© 1983 Javier Vergara Editor S.A. Argentina.
Oriana Fallaci entrevistando a Alexos Panaguli, 1973
ORIANA FALLACI:
Alekos, ¿qué significa ser un
hombre?
ALEJANDRO PANAGULIS:
Significa tener valor, tener
dignidad.
Significa creer en la humanidad. Significa amar sin permitir
que un
amor se convierta en un ancla.
Y significa luchar. Y vencer.
Mira, más o menos
lo que dice Kipling con aquella poesía titulada If.
Y para ti, ¿qué es un
hombre?
ORIANA FALLACI:
Diría que un hombre es lo que tú
eres, Alekos.
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entrevista completa:
ORIANA
FALLACI: UN HOMBRE (fragmento)
"Todas las banderas, incluso las más nobles y puras, están sucias de sangre y de mierda. Cuando miras los estandartes gloriosos, expuestos en los museos y en las iglesias, venerados como reliquias ante las que hay que arrodillarse en nombre de los ideales, NO TE HAGAS ILUSIONES: esas manchas parduscas no son trazas de herrumbre, sino residuos de sangre, residuos de mierda y más a menudo de mierda que de sangre. La mierda de los vencidos, la mierda de los vencedores, la mierda de los buenos, la mierda de los malos, la mierda de los héroes, la mierda del hombre que está hecho de sangre y mierda. Donde está la una, está la otra por desgracia; la una tiene necesidad de la otra. Naturalmente, depende mucho de la cantidad de sangre vertida, de la mierda salpicada: si la primera supera a la segunda, se cantan himnos y se erigen monumentos; si la segunda supera a la primera, se clama escándalo y se celebran ritos propiciatorios. Pero establecer la proporción resulta imposible, dado que la sangre y la mierda adquieren el mismo color con el tiempo.
Además, en apariencia, la mayor parte de las banderas están limpísimas: para conocer la verdad deberíamos interrogar a los muertos aniquilados en nombre de los ideales, los sueños y la paz; a las criaturas injuriadas, ultrajadas y engañadas con el pretexto de hacer un mundo hermoso, y con tales testimonios elaborar una estadística de las infamias, las barbaries, las inmundicias vendidas como virtud, clemencia y pureza. No existe empresa, en la historia del hombre que no haya costado un precio en sangre y mierda. En la guerra no disparas claveles, tanto si combates en el bando llamado justo (¿justo para quién?) como si combates en el bando llamado erróneo (¿erróneo para quién?). Disparas balas, lanzas bombas y matas a inocentes. En la paz sucede lo mismo: cada gran gesto siega víctimas sin piedad, y ay de los héroes en lucha con los dragones del poder, ay de los poetas en lucha con los molinos de viento: son los peores carniceros porque, entregados al sacrificio, destinados al suplicio, no dudan en imponer el sacrificio y el suplicio a los demás, como si un árbol erradicado estuviera menos erradicado, un tejado levantado estuviera menos levantado, un corazón roto estuviera menos roto porque la finalidad es buena y el resultado, positivo."
Perché Panagulis è stato ucciso / Oriana Fallaci, 1979
Invece di mandargli i fiori, ho fatto stampare 5mila manifesti per il giorno del suo funerale. Li ho fatti stampare con la fotografia che a me piace di più, e con una delle sue poesie che a me sono più care, e con una frase che mi venne spontanea quando seppi che lo avevano ammazzato ma ora la ripetono tutti come uno slogan. La fotografia è quella che gli scattarono il giorno in cui fu eletto deputato, e sorride il sorriso di un bambino felice, e alza il pugno in segno di vittoria.
La poesia è quella che dice: «Non piangere per me / Sappi che muoio / Non puoi aiutarmi / Ma guarda quel fiore / quello che appassisce ti dico / Annaffialo» . La frase che ora tutti ripetono come uno slogan è questa: «Nel 1968 Alessandro Panagulis fu condannato a morte perché cercava la libertà. Nel 1976 Alessandro Panagulis è morto perché cercava la verità e l’aveva trovata». Tu sai di quale verità sto parlando.
In Grecia lui la trovò soprattutto a proposito dell’Esa e delle responsabilità sulla invasione di Cipro. Me ne parlò subito, con gli occhi che gli ridevano di gioia fanciullesca. A Roma, mi pare. «Altro che rapporto Pike, altro che rapporto Church», mi disse. Erano documenti autografi, firmati dagli stessi responsabili. «Ma come li userai?». Rispose: «Pubblicherò un settimanale. Il primo numero avrà in copertina la lettera autografa del personaggio più compromesso. Al secondo numero mi fermeranno, forse. Ma ormai avrò fatto sapere l’essenziale». Per un mese non discutemmo d’altro. Si accorse ben presto che non avrebbe mai trovato quei soldi, o non abbastanza in tempo, e così si decise a dare alcuni documenti a Ta Nea, un quotidiano di Atene.
Erano i documenti meno sensazionali, gli hors d’uvre. Suscitarono lo stesso un inferno, e alla sesta puntata Averoff intervenne: la magistratura proibì di continuare le pubblicazioni. Averoff: il ministro della Difesa. Il suo nemico. Mentre la pubblicazione avveniva, Alekos (Panagulis, ndr) era in Italia. Arrivando mi aveva detto d’esser venuto per scrivere un libro. Ma io avevo capito subito che la ragione era un’altra, che aveva bisogno di stare qualche settimana lontano dalla Grecia dove si sentiva in pericolo. Non gliene chiesi conferma perché sapevo che non gli piaceva farmi partecipe di certe preoccupazioni e angosciarmi. Abitava a casa mia, naturalmente. Ed era sempre così inquieto. Doveva tornare in Grecia dopo 30 giorni. Al trentesimo giorno disse: «Posso rimandare la partenza di 24 ore». Al trentunesimo giorno disse: «In fondo posso rimandarla anche di 48». Al trentaduesimo giorno disse: «Potrei rimandarla anche d’una settimana». E allora fui certa che in Grecia stava rischiando davvero la vita. Ma non lo pregai di restare in Italia. Era una di quelle creature che bisogna lasciar morire se hanno deciso di morire. Perché, se l’hanno deciso, vuol dire che è giusto così.
Una dura lezione che avevo imparato quand’era in esilio in Italia, nel 1973 e nel 1974, e lottava contro i colonnelli. Ogni tanto spariva. Andava in Grecia, grazie a un passaporto falso. Scendeva all’aeroporto di Atene, con quei baffi e con quella pipa che lo facevano riconoscere tra mille, e fieramente passava tra le maglie della polizia, sotto gli sguardi di coloro che volevano ammazzarlo. Quando lo accompagnavo all’aeroporto, non mi chiedevo mai se sarebbe tornato. Mi limitavo a sperare che tornasse. Tornava sempre, ridendo. No, in certi casi anche piangendo. Come la volta in cui aveva trovato tutte le porte chiuse. Gli amici che ora si definiscono tali e piangono lacrime di coccodrillo sfruttando la sua morte (come quel Papandreu che egli non rispettava) non gli aprivano dicendo: «Ho famiglia». Tornò anche dalla Spagna, dov’era andato con un altro passaporto falso per aiutare la resistenza contro Franco. Tornava sempre. E questa volta non è tornato. Dovevamo vederci a Roma lo stesso giorno in cui avverranno i suoi funerali. A Roma avrebbe portato le fotocopie dei documenti, per metterli al sicuro in Europa. Alla fine di aprile lo chiamai ad Atene da New York. Gli chiesi: «Come va? » . Rispose: «Molto male». «Perché? ». «Sono molto, molto triste. E molto, molto preoccupato». Per divertirlo gli raccontai che i fascisti di Imperia mi avevano condannata a morte. Invece non si divertì. Rispose: «Anche me». Replicai, tentando dell’umorismo: «I fascisti d’Imperia?!». E lui: «No, i fascisti di qui». E io: «Per i documenti? ». «Già». Da New York lo chiamai di nuovo il giorno in cui partii per rientrare in Italia. Era venerdì 30 aprile, poche ore prima della sua morte. Il suo tono era strano. No, non strano. Triste. No, non triste. Rassegnato. Sussurrai: «Stai attento». E con quel tono triste, no, rassegnato, replicò: «Tanto, se vogliono farlo, lo fanno». L’indomani mattina ero a Roma.
Pensai di avvertirlo per confermare il nostro appuntamento. Allungai la mano verso il telefono e, prima che sollevassi il ricevitore, il telefono squillò. Era l’ex avvocato di Costantino di Grecia. Sembrava sconvolto. Quasi strillò: «Cosa può dirmi sulla morte di Panagulis?». Paradossalmente, rimasi calma. Stupidamente risposi: «Panagulis sta benissimo. Ci ho parlato poche ore fa» . E lui: «No, no, sembra proprio che sia morto. In un incidente automobilistico». Composi due numeri: uno a Milano e uno a Roma. A Milano mi dissero che, in realtà, la voce era corsa ma la radio non l’aveva confermata. A Roma mi dissero: «Un momento, ora controlliamo». Erano quelli dell’Ansa. «Sì, purtroppo è vero». Allora chiamai un taxi e corsi di nuovo all’aeroporto. Sull’aereo sono stati gentili. Mi hanno dato un posto lontano da tutti: perché potessi piangere in pace, suppongo. Invece non ho pianto. Quello è successo dopo, quand’ero proprio sola. Anche lui faceva così. All’aeroporto di Atene c’erano ad aspettarmi i suoi amici. C’erano anche i fotografi che mi sparavano addosso fucilate di luce, e io mi vergognavo, mi sentivo ridicola, mi sembrava d’essere la vedova nazionale. Io e gli amici siamo saltati in macchina. Diretti all’obitorio. Sulla strada che porta in città, a un certo punto, c’era una grande folla. Ho chiesto perché e mi hanno detto: «È successo lì». Allora ho fatto fermare la macchina e sono passata attraverso la folla, pentendomi subito perché molti sussurravano: «Fallatzi, Fallatzi» e si scostavano come intimiditi. Il luogo era circondato da un cordone di poliziotti, e al di là del cordone c’era un mucchio di ferri contorti color verde pisello. Due poliziotti m’hanno fermato con la brutalità dei poliziotti: mettendomi le mani addosso. Non ricordo bene quel che è successo, ma gli amici dicono che ho buttato un poliziotto per terra, e ho spinto l’altro molto lontano. Poi sono stata davanti a quel mucchietto di ferri color verde pisello... E questi erano la sua Primavera, la sua Fiat. Erano tre anni che aspettavo, voglio dire che temevo, questo momento. Erano tre anni che dicevo a me stessa: prima o poi succederà. Aveva sempre avuto fortuna. Era sfuggito alla fucilazione; era sopravvissuto a torture inumane; era divenuto un poeta proprio attraverso quelle; era uscito dopo cinque anni da un carcere atroce dove sembrava dovesse restare tutta la vita o morirci; era passato indenne attraverso insidie, attentati; era stato eletto deputato nell’anniversario della sua condanna a morte; era amato, venerato, adulato da alcuni fino all’eccesso. Ma io non mi facevo illusioni. Del resto non faceva nulla per evitarlo. Lo sfidava ogni giorno quel suo destino di finire ammazzato. Forse non riesco a esprimermi. Capisci, non sono molto lucida.
Non dormo da quattro notti e anche se cerco di non darlo a vedere perché detesto il dolore esibito, dentro sono un unico urlo. Ciò che cerco di spiegarti è difficile. Ma può riassumersi così: non c’è stupore in me. O meglio, uno stupore c’è: quello di non essere anch’io in una cella frigorifera di quell’obitorio. E non sono certa di sentirne sollievo. Quante volte, insieme, siamo stati inseguiti da un’automobile che voleva ammazzarci. La prima volta fu nel settembre del 1973, dodici giorni dopo ch’egli era uscito dal carcere di Boyati. Praticamente, m’ero trasferita ad Atene: non solo perché lui me l’aveva chiesto, non solo perché volevo stargli vicino, ma perché mi sembrava di aiutarlo con la mia presenza. Mi sembrava che avrebbero esitato a ucciderlo se, per uccidere lui, dovevano uccidere anche me. Abitavo nella sua casa di Glifada. Un giorno gli dissi che non conoscevo Creta. E mi portò a Creta. A Creta dissi che volevo vedere la reggia di Cnosso. E mi portò a Cnosso. Anzi, ci portò un suo amico, avvocato. Con l’automobile. Ci accorgemmo presto che un’altra automobile ci seguiva, con due tipi dalla faccia di poliziotto. Dunque questa macchina ci seguiva e, a volte, accelerava buttandosi contro di noi. Noi riuscivamo sempre a cavarcela andando più forte ma a un certo punto quelli presero ad accostarsi sulla nostra fiancata di sinistra, e a spingerci verso il precipizio. Ci salvò, per miracolo, un’altra macchina della polizia. Salto gli altri episodi per non diventare monotona. Te ne aggiungo uno e basta: quello che avvenne nel settembre dell’anno scorso. Nel settembre o in estate? Eravamo andati a cena, io e Alekos, in una trattoria dove si mangia il pesce. Qui ci raggiunse una telefonata. Un’automobile nera, gli dissero, passava da ore dinanzi al Politecnico e a intervalli buttava una bomba. La polizia non interveniva. Alekos ascoltò con calma e rispose: «Andrò a dare un’occhiata». Erano i giorni in cui si temeva un nuovo colpo di Stato. Aveva preso in affitto una Peugeot. Procedeva come un macinino di Stan Laurel e Oliver Hardy. E ciò lo divertiva perché diceva che io ero Stan Laurel e lui Oliver Hardy, cioè due disgraziati che si mettevano sempre nei guai. Tossendo e sputando, la nostra Peugeot giunse dinanzi al Politecnico. Qui ci fermammo e Alekos interrogò gli studenti. Stava interrogandoli quando la macchina nera apparì. Aveva una targa del corpo diplomatico, cd. A bordo c’erano quattro uomini dal volto di fascisti. Alekos mi ordinò perentorio: «Andiamo». Risalii sulla Peugeot, e lui con me. Partimmo e l’automobile nera era ormai lontana. Ma presto riapparve, dietro di noi e...
A un certo punto non fu più chiaro chi seguiva e chi era inseguito. La sola differenza era che loro inseguivano noi per ammazzarci e noi inseguivamo loro per capire chi fossero e portarli dalla polizia. L’agonia durò due ore e mezzo. L’automobile nera ci condusse molto lontano, quasi fino al tempio di Sugno. A un certo punto, devo ammetterlo, ebbi molta paura. E non mi vergognai di gridarlo a quest’uomo che non aveva paura di nulla, mai. Lui non rispose nemmeno. Ma il macinino di Stan Laurel e Oliver Hardy si comportò in modo glorioso. La trappola che ci avevano teso scattò solo alla fine, dopo che uno dei quattro fascisti era sceso dall’automobile nera per dileguarsi. L’automobile nera finse di lasciarsi inseguire e, in piena città, imboccò un vicolo cieco. Appena me ne accorsi, dissi ad Alekos: «Siamo in trappola». Lui rispose freddo: «Lo so». Allora aggiunsi: «Torniamo indietro». E lui: «È troppo tardi». L’automobile nera entrò dentro un garage, in fondo al vicolo cieco. Si fermò, i tre scesero e si piazzarono in mezzo al garage ad aspettarci. Alekos fermòla Peugeot accanto all’automobile nera e mi disse: «Tu resta in macchina». Poi scese andandogli incontro. Lo seguii immediatamente. Alekos si avvicinò al tipo più minaccioso e sempre freddo, sempre calmo, gli tirò la cravatta. Poi mormorò, in greco e in italiano: «Vedi, questi sono fascisti greci. E non hanno coglioni». L’uomo col pacchetto posò la mano destra sopra il pacchetto. Poi, all’improvviso, si buttò in ginocchio e cominciò a implorare pietà: «Alekos, noi ti ammiriamo, ti rispettiamo. Sei Panagulis. È stato tutto un equivoco». E Alekos: «Meglio. Gli equivoci si chiariscono dinanzi alla polizia». Non mi crederai ma riuscì a farsi seguire, stavolta, per portarli al Politecnico e consegnarli alla polizia. La targa cd era una targa falsa e... Vedi, siamo qui nella sua stanza, io sto qui a parlarti distesa sul suo letto, e non riesco a credere che sia morto davvero. Eppure l’ho visto morto. Non ci riesco, malgrado tutto ciò che ti ho detto prima, perché lui si comportava come se fosse immortale. Eppure parlava sempre di morte. Le sue poesie parlavano sempre di morte, di morti. Quando poi aveva la febbre... Lo coglievano febbri violente, assai spesso. Le torture subite lo avevano rovinato. Una volta, a Firenze, lo portai a fare una radiografia per vedere se quelle febbri dipendevano dai reni o dai polmoni. E il radiologo, stupefatto, esclamò: «Ma è tutto rotto quest’uomo! Non ha nemmeno una costola intatta! Ma cosa gli hanno fatto?!». Queste febbri arrivavano anche a 41, 41 e mezzo. Tremando diceva: «Muoio, Stavolta muoio, Oriana». Però lo diceva ridendo. Temeva la morte o no? È una domanda che mi sono posta spesso, senza darvi risposta. Ma ora posso dare una risposta. Non temeva la morte. Parlava della morte, ridendo, perché sapeva che sarebbe giunta assai presto: come una beffa. Un giorno gli lessi la mano. Aveva una mano strana, anzi terrificante. Sulle palme c’erano solo tre segni. Quello del cuore, quello dell’intelligenza, quello della vita. Quello del cuore e quello dell’intelligenza erano senza fine, quello della vita si interrompeva bruscamente. Provai un brivido a guardarlo e gli dissi: «Vivrai fino a cent’anni!». Spalancò la bocca immensa in una immensa risata ed esclamò: «Bugiarda! Io non diventerò mai vecchio e l’hai visto». Gli dispiaceva, sai.
Perché il sogno di Alessandro Panagulis era diventare vecchio. Vecchio e curvo come Ferruccio Parri che amava e ammirava. Per questo si vestiva quasi sempre da vecchio. Abiti severi, grigi o blu, camicie: bianche o color pastello, e sempre la cravatta. Per questo portava i baffi e fumava la pipa. Con quelle boccate lunghe, lente, da vecchio. Per questo camminava a passi così grevi, cardinalizi. Io lo prendevo in giro. Sapevo quanto gli piacesse Makarios, quanto ne ammirasse la ieraticità, e quando correvo (tu lo sai, io corro sempre) gli strillavo con impazienza: «E dai, corri! Non fare il Makarios!». Un giorno mi disse: «Lasciami fare. Ci ho messo tanto a imparare a camminare come un vecchio». Poi ebbe una pausa e aggiunse: «E a pensare come un vecchio». Anche la sua saggezza era saggezza da vecchio. E le sue profezie erano le profezie di un vecchio. Te le declamava lentamente, mordendo la pipa, e a volte erano profezie così paradossali che non lo contraddicevi solo per il rispetto che suscita un vecchio. Io sono... io ero un poco più vecchia di lui, eppure dinanzi a lui, con lui, mi sentivo più giovane di lui. Mi suscitava rispetto, capisci? Infatti tenevo sempre conto dei suoi rimproveri. Però era anche un bambino, e ora non so come metterla insieme questa storia del bambino e del vecchio. Le sue esplosioni di gioia, ad esempio, erano esplosioni da bambino. Quand’era felice, saltava e giocava come un bambino: fino a irritarmi. Anche i suoi dispetti erano dispetti da bambino. O da vecchio? Anche i suoi capricci. E le sue disperazioni erano disperazioni da bambino. O da vecchio? Così le sue allegrie. Se tu sapessi quant’era allegro, buffo, divertente. Io non ho mai riso tanto come in questi tre anni con Alekos. Riso o sofferto? Diventava la stessa cosa con lui. Guardiamo se posso spiegarmi. Non c’è nulla di più odioso, secondo me, di un eroe. E Panagulis era un eroe. Ma era un eroe che ride. Soprattutto di se stesso. Si prendeva sempre in giro. Questo è il ritratto di un bambino o di un vecchio; io temo che sia il ritratto di un genio. Ci ho messo tanto a capire che era un genio. Mi rifiutavo di ammetterlo, anche per riuscire a tenergli testa. Avevo dinanzi a me, accanto a me, un mito delle folle. E, sia istintivamente che razionalmente, respingevo quel mito. Cercavo di ridurlo a dimensioni umane che in realtà non aveva. Perché tutto in lui era eccessivo. Di male c’era così poco in lui. I suoi difetti erano tanto piccoli quanto le sue virtù erano grandi. E quando i suoi difetti ti esasperavano, non avevi che ricordare le sue virtù. Ad esempio la sua bontà, malamente nascosta dietro gli atteggiamenti bruschi. Ricordi quando perdonò ai suoi torturatori e chiese che Papadopulos, Makaresos, Pattakos, Joannidis non fossero condannati a morte? Era ossessionato dalla libertà, lo sanno tutti, ma anche dalla moralità. E questo non lo sanno tutti. Diceva, pensa, che la politica è moralità. Per questo fece la sua campagna elettorale con poche lire, pubblicizzato soltanto da qualche manifesto grande come un francobollo, e dai suoi discorsi pronunciati senza retorica e senza lusinghe. Parlava alla folla con voce bassa, dicendo che lui non prometteva miracoli perché i miracoli non esistevano. Non ho mai visto qualcuno chiedere d’essere eletto a quel modo, cioè maltrattando in tal modo i suoi possibili elettori, fustigandoli, rimproverandoli. Era un uomo indulgente con tutti, capiva come nessuno le debolezze e le colpe che nascono con la vita. Eppure diventava rigido come un angelo vendicatore quando toccava il tema della moralità. Io gli dicevo: «Fai la politica come un predicatore». E lui rispondeva: «No, faccio la politica come un poeta». Un poeta che ride. Una volta si trovò nel mezzo di una manifestazione di ostetriche che facevano anche lo sciopero della fame. Così ordinò a sua madre di portare alle ostetriche un soccorso di uova sode. Sua madre giunse mentre la polizia le attaccava. Così lui agguantò il cesto delle uova sode e con quelle, una a una, si mise a bombardare i rappresentanti dell’ordine. Il capo della polizia lo riconobbe. Lo affrontò e gli disse: «Onorevole Panagulis, sono il colonnello Tal dei Tali». Alekos posò l’uovo sodo, gli si avvicinò, gli strappò le spalline coi gradi, e rispose: «Ora non lo è più. L’ho degradato». Gli intentarono un processo per questo. Ma l’intero Parlamento votò quasi all’unanimità perché il processo non avvenisse. Dico «quasi all’unanimità» perché ci fu un voto contrario: il suo. E lui lo motivò dicendo: «Sì, l’ho degradato. Ma non era mica legale. Farsi la legge da soli è un dovere quando la legge non c’è perché la democrazia non esiste. Ma ora la democrazia esiste. Be’... comunque esiste un Parlamento». Mi dicono (e credo sia vero) che durante l’episodio delle ostetriche il presidente del Parlamento gli chiedesse esasperato: «Scusi, onorevole. Ma cosa c’entra, lei, con le ostetriche?». E Alekos: «Mi hanno fatto nascere, signor presidente. E a me piace tanto essere nato. Peccato che abbiano fatto nascere anche lei». Si divertiva anche a fare il deputato. Si divertiva a fare tutto. Trasformava ogni suo problema personale in una burla da Ulisse. Era Ulisse. La sua Itaca non esisteva. Per lui esisteva soltanto il viaggio. E a interrompere il viaggio, la vita, può essere solo la morte. Il concetto che esprime nella più bella delle sue poesie, Taxidi. Quella che mi ha dedicato. Il concetto, anche, che mi regalò con una frase che ho messo nel mio libro Lettera a un bambino mai nato. Quella che dice: «Benedetto colui che può dirsi: io voglio camminare, non voglio arrivare. Maledetto colui che s’impone: voglio arrivare fin là. Arrivare è morire, durante il cammino puoi concederti solo fermate». E sua anche la frase che chiude il libro: «Perché la vita non muore». Me la gridò una notte, in questa stanza, arrabbiato perché facevo morire la protagonista del libro. Solo con una persona non si divertì mai: col ministro della Difesa Averoff. Quello che ha dichiarato stamani: «Io non permetto nemmeno che il mio nome venga citato nella storia dei documenti scoperti dal signor Panagulis». Quello che oggi non si è presentato in Parlamento dove l’intera seduta era dedicata alla commemorazione di Panagulis. Quello che dice: «Voglio quei documenti e li avrò». Del resto non fu Averoff a sollecitare la sentenza della magistratura che ne interrompeva e ne proibiva la pubblicazione? L’inimicizia, mi pare, scoppiò quando Alekos scrisse per L’Europeo un articolo dove indicava in Averoff l’elemento più reazionario dell’attuale governo e l’uomo più legato alla Cia. Lo indicava anche come l’ideatore e il direttore del colpo di Stato andato a monte verso la fine del 1975. Averoff tentò di prenderla sportivamente. Cercò di farlo incontrare e ammansire, si dice, con la sua bella figliola. Una extraparlamentare di lusso, ovviamente di estrema sinistra.
Ma il tentativo non riuscì. Allora Averoff attese d’incontrarlo nei corridoi del Parlamento. Gli andò incontro a braccia spalancate, un sorriso mellifluo sotto i baffetti alla Charlot, e: «Alessandro carissimo, ma cos’è questa incomprensione tra noi? Siamo due persone intelligenti, civili, quindi capaci di trovare un punto di intesa. Perché non discuterne? Parliamone a cena». E Alekos: «Signor ministro, i problemi del popolo non si discutono a cena. Si discutono in Parlamento». Incominciò a quel modo la lunga, spietata serie delle sue interrogazioni al signor ministro. Alekos le chiamava domandine. Solo nei casi più gravi, domande. E, nei casi gravissimi, superdomande. Quasi a ogni telefonata mi diceva: «Stamani il domandiere ha fatto arrabbiare di nuovo Averoff». All’inizio Averoff rispose con grande indulgenza. Ma poi divenne sempre meno indulgente. Diciamo subito che io non so niente di quel che è successo negli ultimi giorni tra Alekos e Averoff. Non ero ad Atene. Però mi è stato detto che avvenne una telefonata assai drammatica, la settimana scorsa, tra i due. Alekos disse: «Signor ministro, lei mi minaccia. Io non la minaccio, ma lei mi minaccia». Lo disse tre volte. Me lo ha confermato anche un eminente uomo politico spiegandomi che ad Atene l’episodio è conosciuto da tutti. L’eminente uomo politico al quale alludevo poco fa sostiene addirittura che stare in casa di Alekos è follia. Non dimentichiamo che, quando Alekos era vivo, la porta è stata forzata più volte. E più volte vi hanno lasciato minacce scritte o stampate, anche in italiano, con la firma Ordine Nero. L’eminente uomo politico ha preso l’iniziativa di chiedere che sul marciapiede sosti, giorno e notte, una guardia in uniforme. Affacciati alla finestra. Guardalo: è quello lì, poveretto. Scommetto che muore di sonno e mi maledice. E poi perché questa sollecitudine viene esibita con tanto ritardo e per me? Perché non imposero ad Alekos d’esser protetto da un poliziotto sul marciapiede, anzi da un poliziotto che lo seguisse in automobile per impedire che qualche automobile tentasse di buttarlo fuori strada come a Creta, come a Sugno? Lo sapevano bene quanto fosse minacciato. No, no, lungi dal sembrarmi follia, stare qui a me sembra un dovere. Bisogna pure che qualcuno dimostri come in questa stanza resti accesa una luce anche ora. Magari, alzando lo sguardo verso queste finestre, chi passa è portato a pensare che Alekos è ancora qui: coi suoi documenti. E comunque, finché resto ad Atene, per i suoi funerali, mi sembra di aiutarlo a ricordare che è vivo. Vivo quanto quei documenti che non ha fatto in tempo a consegnarmi in fotocopia, che non so dove siano, ma che prima o poi verranno fuori. Vedrai. E allora anche in Parlamento se ne dovrà parlare, e nessuno potrà permettersi d’essere assente: come ha fatto ieri Averoff. A proposito: lo sai che il lunedì 3 maggio Alekos avrebbe rivolto un’interrogazione a Karamanlis, per quei documenti? Era la sua ultima carta. E, vedi caso, lo hanno ammazzato proprio la notte tra venerdì e sabato. Ti ripeteranno fino alla nausea che fu un incidente. Te lo dimostreranno con un capro espiatorio. Magari con un giovanottello che piange raccontando d’aver commesso un errore di guida ed esser colpevole solo di omissione di soccorso. Succede sempre così. Ma non ci credere, mai. Testimoni hanno visto, e le perizie tecniche lo hanno dimostrato. Almeno un’automobile (sembra infatti che fossero due) lo seguiva e lo provocava, mentre lui scappava invano. Era un’auto che andava più forte della sua. Lo colpì una prima volta di dietro (è dimostrato dalle perizie), poi gli si affiancò sulla sinistra e prese a spingerlo verso il margine della strada: più volte. Lui si trovava nella corsia centrale, fu presto obbligato a buttarsi sulla corsia di destra.
E, da questa, sullo spiazzato che si stendeva oltre il marciapiede. Obbligato a spostarsi o buttato? Diciamo buttato. Alekos tentò di riprendersi. Aveva riflessi prontissimi. Ma lo spazio era stretto, le luci della Texaco abbagliavano, e certo non vide che lo spiazzato s’interrompeva su un vuoto che era la corsia d’ingresso a un garage. Una corsia in discesa, ripida, e limitata dal muro contro cui si schiacciò. Si schiacciò con tale violenza che la sua Primavera divenne corta corta. Dicono che sia morto sul colpo. Lo spero. Io continuo a chiedere ai medici e agli esperti: se ne sarà accorto che non sarebbe diventato mai vecchio? E loro mi rispondono no, non ne ha avuto il tempo, è precipitato e si è schiacciato nel giro di mezzo secondo, un terzo di secondo, è svenuto nello stesso momento in cui questo è avvenuto. Lo spero. Il suo assassino, intanto, girava con una svolta a U, per tornare di nuovo in città. Ed erano le una e 52 del mattino di sabato primo maggio festa dei lavoratori. Lunedì mattina Alekos avrebbe dovuto rivolgere un’interrogazione a Karamanlis sulla faccenda dei documenti. Per insultarlo anche da morto ti diranno anche quale percentuale di alcool gli hanno trovato nel sangue: omettendo di chiarire, s’intende, che era una percentuale minima, ancora al di sotto di quella consentita dalla legge. Quella sera aveva bevuto, insieme ad altri quattro, solo una bottiglia di vino. I quattro erano quattro vecchi, amici suoi. Erano rimasti insieme fino a mezzanotte e mezzo, forse di più. Poi lui li aveva accompagnati a casa, uno a uno. La tragedia è successa all’una e 52 mentre tornava verso Glifada: per dormire a casa di sua madre. Quando temeva d’esser aggredito, preferiva dormire laggiù. Ho detto tornava perché il ristorante dove aveva mangiato è a Glifada. Ed è lo stesso, all’aperto, dove andò dopo esser uscito dalla prigione, la prima volta che rientrò in un ristorante. Ci andammo insieme. Scendendo dal taxi diceva: «Sono molto felice, I am very happy». Poi, quando entrammo, fu chiaro quanto gli costasse ogni piccola felicità. Il fatto di sentirsi riconosciuto, guardato, additato, come l’attentatore di Papadopulos, l’eroe del nostro tempo, lo riempiva d’imbarazzo e di angoscia. Procedeva confuso tra i tavoli, stringendomi forte la mano, quasi vi si volesse aggrappare. Una volta seduto, si mise a fissare la tovaglia. Ci misi tanto a fargli sollevare lo sguardo verso il cielo per dimostrargli che non era più in prigione, e che in cielo c’eran le stelle. Tu non crederai a ciò che sto per raccontarti, lo so. Dirai che è teatro. Ma tutto ciò che accadeva con lui, e a lui, era anche teatro. A un certo punto, quella sera, cadde una stella. E io feci a tempo a esprimere un desiderio: che vivesse ancora un po’. Quest’uomo scomodo, diverso da tutti, dai più accettabile solo da morto.
Dopo aver visto la sua Primavera ridotta a un mucchio di ferri contorti, sono risalita in macchina e sono andata all’obitorio. Anche dinanzi a questo c’era una gran folla. E, tra la folla, c’erano i medici e gli avvocati giunti dall’Italia per una superperizia. Per vederlo ci voleva il permesso del ministro della Giustizia da cui dipendeva l’arrivo di due funzionari di nonsoché. I due funzionari erano attesi da un’ora e mezzo. Ho chiesto il numero del signor ministro e sono andata a telefonargli da una cabina. Non sono stata gentile. Gli ho detto che sarei entrata in quell’obitorio coi suoi funzionari o senza i suoi funzionari. L’interno dell’obitorio era una scatola bianca e illuminata da luci vivide, al neon. Da un lato c’era un cassone di metallo con nove sportelli. Nel primo sportello in basso, a sinistra, c’era Alessandro Panagulis: hanno detto. Ho sentito una grande stanchezza. Mi sono appoggiata al muro. Mi ha scosso il lampo di un flash. Hanno fatto chiudere la finestra, e poi ci hanno mostrato le fotografie di Alekos dopo l’autopsia. Così ci avrebbe fatto meno impressione vederlo, si sono giustificati. Nelle fotografie Alekos era disteso sopra una tavola, nudo, come quando lo torturavano nel 1968 alla centrale della polizia militare. La sola differenza, suppongo, era che qui non aveva le mani e i piedi legati. Molte fotografie offrivano particolari raccapriccianti delle sue ferite. Altre, i suoi organi estratti. Il medico greco ci ha spiegato che gli era scoppiato il cuore, che il fegato s’era rotto in 19 punti, che la milza non esisteva più, che il femore destro s’era frantumato in mille pezzetti, che il polmone destro era ridotto a uno straccio. E così mi sono ricordata di un’altra sua poesia. Quella che dice: «Non ti capisco Dio / Dimmi di nuovo / Mi chiedi di ringraziarti / o di scusarti?». Mi sono anche ricordata di com’era quando rideva, e quando saltava, e quando giocava, tutto contento d’essere nato. E il giorno in cui l’avevo accompagnato, per la prima volta dopo anni di calvario, a nuotare, nel mare. E il giorno in cui aveva giurato come deputato in Parlamento e dallo scanno si era girato a guardarmi lassù sulle tribune, frenando un sorriso, perché sapevo che le sue suole erano consumate e temevo che alzandosi scivolasse. Ma io mi sono pentita di esser lì e ho avuto tanta voglia di scappare per non vederlo come nelle fotografie dell’autopsia. Invece loro hanno aperto lo sportello della prima cella frigorifera in basso a sinistra, e hanno tirato fuori una lastra di metallo su cui stava un fagotto insanguinato. E hanno aperto il fagotto e hanno scoperto Alekos che dormiva serio serio, con un visino bianco bianco. Mi sono inginocchiata davanti a lui e gli ho accarezzato i capelli. Erano molto freddi, e ho ritirato la mano. Non posso dirti altro. O forse non voglio. Dovrei raccontarti, altrimenti, qual è l’odore dell’odio.
La poesia è quella che dice: «Non piangere per me / Sappi che muoio / Non puoi aiutarmi / Ma guarda quel fiore / quello che appassisce ti dico / Annaffialo» . La frase che ora tutti ripetono come uno slogan è questa: «Nel 1968 Alessandro Panagulis fu condannato a morte perché cercava la libertà. Nel 1976 Alessandro Panagulis è morto perché cercava la verità e l’aveva trovata». Tu sai di quale verità sto parlando.
In Grecia lui la trovò soprattutto a proposito dell’Esa e delle responsabilità sulla invasione di Cipro. Me ne parlò subito, con gli occhi che gli ridevano di gioia fanciullesca. A Roma, mi pare. «Altro che rapporto Pike, altro che rapporto Church», mi disse. Erano documenti autografi, firmati dagli stessi responsabili. «Ma come li userai?». Rispose: «Pubblicherò un settimanale. Il primo numero avrà in copertina la lettera autografa del personaggio più compromesso. Al secondo numero mi fermeranno, forse. Ma ormai avrò fatto sapere l’essenziale». Per un mese non discutemmo d’altro. Si accorse ben presto che non avrebbe mai trovato quei soldi, o non abbastanza in tempo, e così si decise a dare alcuni documenti a Ta Nea, un quotidiano di Atene.
Erano i documenti meno sensazionali, gli hors d’uvre. Suscitarono lo stesso un inferno, e alla sesta puntata Averoff intervenne: la magistratura proibì di continuare le pubblicazioni. Averoff: il ministro della Difesa. Il suo nemico. Mentre la pubblicazione avveniva, Alekos (Panagulis, ndr) era in Italia. Arrivando mi aveva detto d’esser venuto per scrivere un libro. Ma io avevo capito subito che la ragione era un’altra, che aveva bisogno di stare qualche settimana lontano dalla Grecia dove si sentiva in pericolo. Non gliene chiesi conferma perché sapevo che non gli piaceva farmi partecipe di certe preoccupazioni e angosciarmi. Abitava a casa mia, naturalmente. Ed era sempre così inquieto. Doveva tornare in Grecia dopo 30 giorni. Al trentesimo giorno disse: «Posso rimandare la partenza di 24 ore». Al trentunesimo giorno disse: «In fondo posso rimandarla anche di 48». Al trentaduesimo giorno disse: «Potrei rimandarla anche d’una settimana». E allora fui certa che in Grecia stava rischiando davvero la vita. Ma non lo pregai di restare in Italia. Era una di quelle creature che bisogna lasciar morire se hanno deciso di morire. Perché, se l’hanno deciso, vuol dire che è giusto così.
Una dura lezione che avevo imparato quand’era in esilio in Italia, nel 1973 e nel 1974, e lottava contro i colonnelli. Ogni tanto spariva. Andava in Grecia, grazie a un passaporto falso. Scendeva all’aeroporto di Atene, con quei baffi e con quella pipa che lo facevano riconoscere tra mille, e fieramente passava tra le maglie della polizia, sotto gli sguardi di coloro che volevano ammazzarlo. Quando lo accompagnavo all’aeroporto, non mi chiedevo mai se sarebbe tornato. Mi limitavo a sperare che tornasse. Tornava sempre, ridendo. No, in certi casi anche piangendo. Come la volta in cui aveva trovato tutte le porte chiuse. Gli amici che ora si definiscono tali e piangono lacrime di coccodrillo sfruttando la sua morte (come quel Papandreu che egli non rispettava) non gli aprivano dicendo: «Ho famiglia». Tornò anche dalla Spagna, dov’era andato con un altro passaporto falso per aiutare la resistenza contro Franco. Tornava sempre. E questa volta non è tornato. Dovevamo vederci a Roma lo stesso giorno in cui avverranno i suoi funerali. A Roma avrebbe portato le fotocopie dei documenti, per metterli al sicuro in Europa. Alla fine di aprile lo chiamai ad Atene da New York. Gli chiesi: «Come va? » . Rispose: «Molto male». «Perché? ». «Sono molto, molto triste. E molto, molto preoccupato». Per divertirlo gli raccontai che i fascisti di Imperia mi avevano condannata a morte. Invece non si divertì. Rispose: «Anche me». Replicai, tentando dell’umorismo: «I fascisti d’Imperia?!». E lui: «No, i fascisti di qui». E io: «Per i documenti? ». «Già». Da New York lo chiamai di nuovo il giorno in cui partii per rientrare in Italia. Era venerdì 30 aprile, poche ore prima della sua morte. Il suo tono era strano. No, non strano. Triste. No, non triste. Rassegnato. Sussurrai: «Stai attento». E con quel tono triste, no, rassegnato, replicò: «Tanto, se vogliono farlo, lo fanno». L’indomani mattina ero a Roma.
Pensai di avvertirlo per confermare il nostro appuntamento. Allungai la mano verso il telefono e, prima che sollevassi il ricevitore, il telefono squillò. Era l’ex avvocato di Costantino di Grecia. Sembrava sconvolto. Quasi strillò: «Cosa può dirmi sulla morte di Panagulis?». Paradossalmente, rimasi calma. Stupidamente risposi: «Panagulis sta benissimo. Ci ho parlato poche ore fa» . E lui: «No, no, sembra proprio che sia morto. In un incidente automobilistico». Composi due numeri: uno a Milano e uno a Roma. A Milano mi dissero che, in realtà, la voce era corsa ma la radio non l’aveva confermata. A Roma mi dissero: «Un momento, ora controlliamo». Erano quelli dell’Ansa. «Sì, purtroppo è vero». Allora chiamai un taxi e corsi di nuovo all’aeroporto. Sull’aereo sono stati gentili. Mi hanno dato un posto lontano da tutti: perché potessi piangere in pace, suppongo. Invece non ho pianto. Quello è successo dopo, quand’ero proprio sola. Anche lui faceva così. All’aeroporto di Atene c’erano ad aspettarmi i suoi amici. C’erano anche i fotografi che mi sparavano addosso fucilate di luce, e io mi vergognavo, mi sentivo ridicola, mi sembrava d’essere la vedova nazionale. Io e gli amici siamo saltati in macchina. Diretti all’obitorio. Sulla strada che porta in città, a un certo punto, c’era una grande folla. Ho chiesto perché e mi hanno detto: «È successo lì». Allora ho fatto fermare la macchina e sono passata attraverso la folla, pentendomi subito perché molti sussurravano: «Fallatzi, Fallatzi» e si scostavano come intimiditi. Il luogo era circondato da un cordone di poliziotti, e al di là del cordone c’era un mucchio di ferri contorti color verde pisello. Due poliziotti m’hanno fermato con la brutalità dei poliziotti: mettendomi le mani addosso. Non ricordo bene quel che è successo, ma gli amici dicono che ho buttato un poliziotto per terra, e ho spinto l’altro molto lontano. Poi sono stata davanti a quel mucchietto di ferri color verde pisello... E questi erano la sua Primavera, la sua Fiat. Erano tre anni che aspettavo, voglio dire che temevo, questo momento. Erano tre anni che dicevo a me stessa: prima o poi succederà. Aveva sempre avuto fortuna. Era sfuggito alla fucilazione; era sopravvissuto a torture inumane; era divenuto un poeta proprio attraverso quelle; era uscito dopo cinque anni da un carcere atroce dove sembrava dovesse restare tutta la vita o morirci; era passato indenne attraverso insidie, attentati; era stato eletto deputato nell’anniversario della sua condanna a morte; era amato, venerato, adulato da alcuni fino all’eccesso. Ma io non mi facevo illusioni. Del resto non faceva nulla per evitarlo. Lo sfidava ogni giorno quel suo destino di finire ammazzato. Forse non riesco a esprimermi. Capisci, non sono molto lucida.
Non dormo da quattro notti e anche se cerco di non darlo a vedere perché detesto il dolore esibito, dentro sono un unico urlo. Ciò che cerco di spiegarti è difficile. Ma può riassumersi così: non c’è stupore in me. O meglio, uno stupore c’è: quello di non essere anch’io in una cella frigorifera di quell’obitorio. E non sono certa di sentirne sollievo. Quante volte, insieme, siamo stati inseguiti da un’automobile che voleva ammazzarci. La prima volta fu nel settembre del 1973, dodici giorni dopo ch’egli era uscito dal carcere di Boyati. Praticamente, m’ero trasferita ad Atene: non solo perché lui me l’aveva chiesto, non solo perché volevo stargli vicino, ma perché mi sembrava di aiutarlo con la mia presenza. Mi sembrava che avrebbero esitato a ucciderlo se, per uccidere lui, dovevano uccidere anche me. Abitavo nella sua casa di Glifada. Un giorno gli dissi che non conoscevo Creta. E mi portò a Creta. A Creta dissi che volevo vedere la reggia di Cnosso. E mi portò a Cnosso. Anzi, ci portò un suo amico, avvocato. Con l’automobile. Ci accorgemmo presto che un’altra automobile ci seguiva, con due tipi dalla faccia di poliziotto. Dunque questa macchina ci seguiva e, a volte, accelerava buttandosi contro di noi. Noi riuscivamo sempre a cavarcela andando più forte ma a un certo punto quelli presero ad accostarsi sulla nostra fiancata di sinistra, e a spingerci verso il precipizio. Ci salvò, per miracolo, un’altra macchina della polizia. Salto gli altri episodi per non diventare monotona. Te ne aggiungo uno e basta: quello che avvenne nel settembre dell’anno scorso. Nel settembre o in estate? Eravamo andati a cena, io e Alekos, in una trattoria dove si mangia il pesce. Qui ci raggiunse una telefonata. Un’automobile nera, gli dissero, passava da ore dinanzi al Politecnico e a intervalli buttava una bomba. La polizia non interveniva. Alekos ascoltò con calma e rispose: «Andrò a dare un’occhiata». Erano i giorni in cui si temeva un nuovo colpo di Stato. Aveva preso in affitto una Peugeot. Procedeva come un macinino di Stan Laurel e Oliver Hardy. E ciò lo divertiva perché diceva che io ero Stan Laurel e lui Oliver Hardy, cioè due disgraziati che si mettevano sempre nei guai. Tossendo e sputando, la nostra Peugeot giunse dinanzi al Politecnico. Qui ci fermammo e Alekos interrogò gli studenti. Stava interrogandoli quando la macchina nera apparì. Aveva una targa del corpo diplomatico, cd. A bordo c’erano quattro uomini dal volto di fascisti. Alekos mi ordinò perentorio: «Andiamo». Risalii sulla Peugeot, e lui con me. Partimmo e l’automobile nera era ormai lontana. Ma presto riapparve, dietro di noi e...
A un certo punto non fu più chiaro chi seguiva e chi era inseguito. La sola differenza era che loro inseguivano noi per ammazzarci e noi inseguivamo loro per capire chi fossero e portarli dalla polizia. L’agonia durò due ore e mezzo. L’automobile nera ci condusse molto lontano, quasi fino al tempio di Sugno. A un certo punto, devo ammetterlo, ebbi molta paura. E non mi vergognai di gridarlo a quest’uomo che non aveva paura di nulla, mai. Lui non rispose nemmeno. Ma il macinino di Stan Laurel e Oliver Hardy si comportò in modo glorioso. La trappola che ci avevano teso scattò solo alla fine, dopo che uno dei quattro fascisti era sceso dall’automobile nera per dileguarsi. L’automobile nera finse di lasciarsi inseguire e, in piena città, imboccò un vicolo cieco. Appena me ne accorsi, dissi ad Alekos: «Siamo in trappola». Lui rispose freddo: «Lo so». Allora aggiunsi: «Torniamo indietro». E lui: «È troppo tardi». L’automobile nera entrò dentro un garage, in fondo al vicolo cieco. Si fermò, i tre scesero e si piazzarono in mezzo al garage ad aspettarci. Alekos fermò
Perché il sogno di Alessandro Panagulis era diventare vecchio. Vecchio e curvo come Ferruccio Parri che amava e ammirava. Per questo si vestiva quasi sempre da vecchio. Abiti severi, grigi o blu, camicie: bianche o color pastello, e sempre la cravatta. Per questo portava i baffi e fumava la pipa. Con quelle boccate lunghe, lente, da vecchio. Per questo camminava a passi così grevi, cardinalizi. Io lo prendevo in giro. Sapevo quanto gli piacesse Makarios, quanto ne ammirasse la ieraticità, e quando correvo (tu lo sai, io corro sempre) gli strillavo con impazienza: «E dai, corri! Non fare il Makarios!». Un giorno mi disse: «Lasciami fare. Ci ho messo tanto a imparare a camminare come un vecchio». Poi ebbe una pausa e aggiunse: «E a pensare come un vecchio». Anche la sua saggezza era saggezza da vecchio. E le sue profezie erano le profezie di un vecchio. Te le declamava lentamente, mordendo la pipa, e a volte erano profezie così paradossali che non lo contraddicevi solo per il rispetto che suscita un vecchio. Io sono... io ero un poco più vecchia di lui, eppure dinanzi a lui, con lui, mi sentivo più giovane di lui. Mi suscitava rispetto, capisci? Infatti tenevo sempre conto dei suoi rimproveri. Però era anche un bambino, e ora non so come metterla insieme questa storia del bambino e del vecchio. Le sue esplosioni di gioia, ad esempio, erano esplosioni da bambino. Quand’era felice, saltava e giocava come un bambino: fino a irritarmi. Anche i suoi dispetti erano dispetti da bambino. O da vecchio? Anche i suoi capricci. E le sue disperazioni erano disperazioni da bambino. O da vecchio? Così le sue allegrie. Se tu sapessi quant’era allegro, buffo, divertente. Io non ho mai riso tanto come in questi tre anni con Alekos. Riso o sofferto? Diventava la stessa cosa con lui. Guardiamo se posso spiegarmi. Non c’è nulla di più odioso, secondo me, di un eroe. E Panagulis era un eroe. Ma era un eroe che ride. Soprattutto di se stesso. Si prendeva sempre in giro. Questo è il ritratto di un bambino o di un vecchio; io temo che sia il ritratto di un genio. Ci ho messo tanto a capire che era un genio. Mi rifiutavo di ammetterlo, anche per riuscire a tenergli testa. Avevo dinanzi a me, accanto a me, un mito delle folle. E, sia istintivamente che razionalmente, respingevo quel mito. Cercavo di ridurlo a dimensioni umane che in realtà non aveva. Perché tutto in lui era eccessivo. Di male c’era così poco in lui. I suoi difetti erano tanto piccoli quanto le sue virtù erano grandi. E quando i suoi difetti ti esasperavano, non avevi che ricordare le sue virtù. Ad esempio la sua bontà, malamente nascosta dietro gli atteggiamenti bruschi. Ricordi quando perdonò ai suoi torturatori e chiese che Papadopulos, Makaresos, Pattakos, Joannidis non fossero condannati a morte? Era ossessionato dalla libertà, lo sanno tutti, ma anche dalla moralità. E questo non lo sanno tutti. Diceva, pensa, che la politica è moralità. Per questo fece la sua campagna elettorale con poche lire, pubblicizzato soltanto da qualche manifesto grande come un francobollo, e dai suoi discorsi pronunciati senza retorica e senza lusinghe. Parlava alla folla con voce bassa, dicendo che lui non prometteva miracoli perché i miracoli non esistevano. Non ho mai visto qualcuno chiedere d’essere eletto a quel modo, cioè maltrattando in tal modo i suoi possibili elettori, fustigandoli, rimproverandoli. Era un uomo indulgente con tutti, capiva come nessuno le debolezze e le colpe che nascono con la vita. Eppure diventava rigido come un angelo vendicatore quando toccava il tema della moralità. Io gli dicevo: «Fai la politica come un predicatore». E lui rispondeva: «No, faccio la politica come un poeta». Un poeta che ride. Una volta si trovò nel mezzo di una manifestazione di ostetriche che facevano anche lo sciopero della fame. Così ordinò a sua madre di portare alle ostetriche un soccorso di uova sode. Sua madre giunse mentre la polizia le attaccava. Così lui agguantò il cesto delle uova sode e con quelle, una a una, si mise a bombardare i rappresentanti dell’ordine. Il capo della polizia lo riconobbe. Lo affrontò e gli disse: «Onorevole Panagulis, sono il colonnello Tal dei Tali». Alekos posò l’uovo sodo, gli si avvicinò, gli strappò le spalline coi gradi, e rispose: «Ora non lo è più. L’ho degradato». Gli intentarono un processo per questo. Ma l’intero Parlamento votò quasi all’unanimità perché il processo non avvenisse. Dico «quasi all’unanimità» perché ci fu un voto contrario: il suo. E lui lo motivò dicendo: «Sì, l’ho degradato. Ma non era mica legale. Farsi la legge da soli è un dovere quando la legge non c’è perché la democrazia non esiste. Ma ora la democrazia esiste. Be’... comunque esiste un Parlamento». Mi dicono (e credo sia vero) che durante l’episodio delle ostetriche il presidente del Parlamento gli chiedesse esasperato: «Scusi, onorevole. Ma cosa c’entra, lei, con le ostetriche?». E Alekos: «Mi hanno fatto nascere, signor presidente. E a me piace tanto essere nato. Peccato che abbiano fatto nascere anche lei». Si divertiva anche a fare il deputato. Si divertiva a fare tutto. Trasformava ogni suo problema personale in una burla da Ulisse. Era Ulisse. La sua Itaca non esisteva. Per lui esisteva soltanto il viaggio. E a interrompere il viaggio, la vita, può essere solo la morte. Il concetto che esprime nella più bella delle sue poesie, Taxidi. Quella che mi ha dedicato. Il concetto, anche, che mi regalò con una frase che ho messo nel mio libro Lettera a un bambino mai nato. Quella che dice: «Benedetto colui che può dirsi: io voglio camminare, non voglio arrivare. Maledetto colui che s’impone: voglio arrivare fin là. Arrivare è morire, durante il cammino puoi concederti solo fermate». E sua anche la frase che chiude il libro: «Perché la vita non muore». Me la gridò una notte, in questa stanza, arrabbiato perché facevo morire la protagonista del libro. Solo con una persona non si divertì mai: col ministro della Difesa Averoff. Quello che ha dichiarato stamani: «Io non permetto nemmeno che il mio nome venga citato nella storia dei documenti scoperti dal signor Panagulis». Quello che oggi non si è presentato in Parlamento dove l’intera seduta era dedicata alla commemorazione di Panagulis. Quello che dice: «Voglio quei documenti e li avrò». Del resto non fu Averoff a sollecitare la sentenza della magistratura che ne interrompeva e ne proibiva la pubblicazione? L’inimicizia, mi pare, scoppiò quando Alekos scrisse per L’Europeo un articolo dove indicava in Averoff l’elemento più reazionario dell’attuale governo e l’uomo più legato alla Cia. Lo indicava anche come l’ideatore e il direttore del colpo di Stato andato a monte verso la fine del 1975. Averoff tentò di prenderla sportivamente. Cercò di farlo incontrare e ammansire, si dice, con la sua bella figliola. Una extraparlamentare di lusso, ovviamente di estrema sinistra.
Ma il tentativo non riuscì. Allora Averoff attese d’incontrarlo nei corridoi del Parlamento. Gli andò incontro a braccia spalancate, un sorriso mellifluo sotto i baffetti alla Charlot, e: «Alessandro carissimo, ma cos’è questa incomprensione tra noi? Siamo due persone intelligenti, civili, quindi capaci di trovare un punto di intesa. Perché non discuterne? Parliamone a cena». E Alekos: «Signor ministro, i problemi del popolo non si discutono a cena. Si discutono in Parlamento». Incominciò a quel modo la lunga, spietata serie delle sue interrogazioni al signor ministro. Alekos le chiamava domandine. Solo nei casi più gravi, domande. E, nei casi gravissimi, superdomande. Quasi a ogni telefonata mi diceva: «Stamani il domandiere ha fatto arrabbiare di nuovo Averoff». All’inizio Averoff rispose con grande indulgenza. Ma poi divenne sempre meno indulgente. Diciamo subito che io non so niente di quel che è successo negli ultimi giorni tra Alekos e Averoff. Non ero ad Atene. Però mi è stato detto che avvenne una telefonata assai drammatica, la settimana scorsa, tra i due. Alekos disse: «Signor ministro, lei mi minaccia. Io non la minaccio, ma lei mi minaccia». Lo disse tre volte. Me lo ha confermato anche un eminente uomo politico spiegandomi che ad Atene l’episodio è conosciuto da tutti. L’eminente uomo politico al quale alludevo poco fa sostiene addirittura che stare in casa di Alekos è follia. Non dimentichiamo che, quando Alekos era vivo, la porta è stata forzata più volte. E più volte vi hanno lasciato minacce scritte o stampate, anche in italiano, con la firma Ordine Nero. L’eminente uomo politico ha preso l’iniziativa di chiedere che sul marciapiede sosti, giorno e notte, una guardia in uniforme. Affacciati alla finestra. Guardalo: è quello lì, poveretto. Scommetto che muore di sonno e mi maledice. E poi perché questa sollecitudine viene esibita con tanto ritardo e per me? Perché non imposero ad Alekos d’esser protetto da un poliziotto sul marciapiede, anzi da un poliziotto che lo seguisse in automobile per impedire che qualche automobile tentasse di buttarlo fuori strada come a Creta, come a Sugno? Lo sapevano bene quanto fosse minacciato. No, no, lungi dal sembrarmi follia, stare qui a me sembra un dovere. Bisogna pure che qualcuno dimostri come in questa stanza resti accesa una luce anche ora. Magari, alzando lo sguardo verso queste finestre, chi passa è portato a pensare che Alekos è ancora qui: coi suoi documenti. E comunque, finché resto ad Atene, per i suoi funerali, mi sembra di aiutarlo a ricordare che è vivo. Vivo quanto quei documenti che non ha fatto in tempo a consegnarmi in fotocopia, che non so dove siano, ma che prima o poi verranno fuori. Vedrai. E allora anche in Parlamento se ne dovrà parlare, e nessuno potrà permettersi d’essere assente: come ha fatto ieri Averoff. A proposito: lo sai che il lunedì 3 maggio Alekos avrebbe rivolto un’interrogazione a Karamanlis, per quei documenti? Era la sua ultima carta. E, vedi caso, lo hanno ammazzato proprio la notte tra venerdì e sabato. Ti ripeteranno fino alla nausea che fu un incidente. Te lo dimostreranno con un capro espiatorio. Magari con un giovanottello che piange raccontando d’aver commesso un errore di guida ed esser colpevole solo di omissione di soccorso. Succede sempre così. Ma non ci credere, mai. Testimoni hanno visto, e le perizie tecniche lo hanno dimostrato. Almeno un’automobile (sembra infatti che fossero due) lo seguiva e lo provocava, mentre lui scappava invano. Era un’auto che andava più forte della sua. Lo colpì una prima volta di dietro (è dimostrato dalle perizie), poi gli si affiancò sulla sinistra e prese a spingerlo verso il margine della strada: più volte. Lui si trovava nella corsia centrale, fu presto obbligato a buttarsi sulla corsia di destra.
E, da questa, sullo spiazzato che si stendeva oltre il marciapiede. Obbligato a spostarsi o buttato? Diciamo buttato. Alekos tentò di riprendersi. Aveva riflessi prontissimi. Ma lo spazio era stretto, le luci della Texaco abbagliavano, e certo non vide che lo spiazzato s’interrompeva su un vuoto che era la corsia d’ingresso a un garage. Una corsia in discesa, ripida, e limitata dal muro contro cui si schiacciò. Si schiacciò con tale violenza che la sua Primavera divenne corta corta. Dicono che sia morto sul colpo. Lo spero. Io continuo a chiedere ai medici e agli esperti: se ne sarà accorto che non sarebbe diventato mai vecchio? E loro mi rispondono no, non ne ha avuto il tempo, è precipitato e si è schiacciato nel giro di mezzo secondo, un terzo di secondo, è svenuto nello stesso momento in cui questo è avvenuto. Lo spero. Il suo assassino, intanto, girava con una svolta a U, per tornare di nuovo in città. Ed erano le una e 52 del mattino di sabato primo maggio festa dei lavoratori. Lunedì mattina Alekos avrebbe dovuto rivolgere un’interrogazione a Karamanlis sulla faccenda dei documenti. Per insultarlo anche da morto ti diranno anche quale percentuale di alcool gli hanno trovato nel sangue: omettendo di chiarire, s’intende, che era una percentuale minima, ancora al di sotto di quella consentita dalla legge. Quella sera aveva bevuto, insieme ad altri quattro, solo una bottiglia di vino. I quattro erano quattro vecchi, amici suoi. Erano rimasti insieme fino a mezzanotte e mezzo, forse di più. Poi lui li aveva accompagnati a casa, uno a uno. La tragedia è successa all’una e 52 mentre tornava verso Glifada: per dormire a casa di sua madre. Quando temeva d’esser aggredito, preferiva dormire laggiù. Ho detto tornava perché il ristorante dove aveva mangiato è a Glifada. Ed è lo stesso, all’aperto, dove andò dopo esser uscito dalla prigione, la prima volta che rientrò in un ristorante. Ci andammo insieme. Scendendo dal taxi diceva: «Sono molto felice, I am very happy». Poi, quando entrammo, fu chiaro quanto gli costasse ogni piccola felicità. Il fatto di sentirsi riconosciuto, guardato, additato, come l’attentatore di Papadopulos, l’eroe del nostro tempo, lo riempiva d’imbarazzo e di angoscia. Procedeva confuso tra i tavoli, stringendomi forte la mano, quasi vi si volesse aggrappare. Una volta seduto, si mise a fissare la tovaglia. Ci misi tanto a fargli sollevare lo sguardo verso il cielo per dimostrargli che non era più in prigione, e che in cielo c’eran le stelle. Tu non crederai a ciò che sto per raccontarti, lo so. Dirai che è teatro. Ma tutto ciò che accadeva con lui, e a lui, era anche teatro. A un certo punto, quella sera, cadde una stella. E io feci a tempo a esprimere un desiderio: che vivesse ancora un po’. Quest’uomo scomodo, diverso da tutti, dai più accettabile solo da morto.
Dopo aver visto la sua Primavera ridotta a un mucchio di ferri contorti, sono risalita in macchina e sono andata all’obitorio. Anche dinanzi a questo c’era una gran folla. E, tra la folla, c’erano i medici e gli avvocati giunti dall’Italia per una superperizia. Per vederlo ci voleva il permesso del ministro della Giustizia da cui dipendeva l’arrivo di due funzionari di nonsoché. I due funzionari erano attesi da un’ora e mezzo. Ho chiesto il numero del signor ministro e sono andata a telefonargli da una cabina. Non sono stata gentile. Gli ho detto che sarei entrata in quell’obitorio coi suoi funzionari o senza i suoi funzionari. L’interno dell’obitorio era una scatola bianca e illuminata da luci vivide, al neon. Da un lato c’era un cassone di metallo con nove sportelli. Nel primo sportello in basso, a sinistra, c’era Alessandro Panagulis: hanno detto. Ho sentito una grande stanchezza. Mi sono appoggiata al muro. Mi ha scosso il lampo di un flash. Hanno fatto chiudere la finestra, e poi ci hanno mostrato le fotografie di Alekos dopo l’autopsia. Così ci avrebbe fatto meno impressione vederlo, si sono giustificati. Nelle fotografie Alekos era disteso sopra una tavola, nudo, come quando lo torturavano nel 1968 alla centrale della polizia militare. La sola differenza, suppongo, era che qui non aveva le mani e i piedi legati. Molte fotografie offrivano particolari raccapriccianti delle sue ferite. Altre, i suoi organi estratti. Il medico greco ci ha spiegato che gli era scoppiato il cuore, che il fegato s’era rotto in 19 punti, che la milza non esisteva più, che il femore destro s’era frantumato in mille pezzetti, che il polmone destro era ridotto a uno straccio. E così mi sono ricordata di un’altra sua poesia. Quella che dice: «Non ti capisco Dio / Dimmi di nuovo / Mi chiedi di ringraziarti / o di scusarti?». Mi sono anche ricordata di com’era quando rideva, e quando saltava, e quando giocava, tutto contento d’essere nato. E il giorno in cui l’avevo accompagnato, per la prima volta dopo anni di calvario, a nuotare, nel mare. E il giorno in cui aveva giurato come deputato in Parlamento e dallo scanno si era girato a guardarmi lassù sulle tribune, frenando un sorriso, perché sapevo che le sue suole erano consumate e temevo che alzandosi scivolasse. Ma io mi sono pentita di esser lì e ho avuto tanta voglia di scappare per non vederlo come nelle fotografie dell’autopsia. Invece loro hanno aperto lo sportello della prima cella frigorifera in basso a sinistra, e hanno tirato fuori una lastra di metallo su cui stava un fagotto insanguinato. E hanno aperto il fagotto e hanno scoperto Alekos che dormiva serio serio, con un visino bianco bianco. Mi sono inginocchiata davanti a lui e gli ho accarezzato i capelli. Erano molto freddi, e ho ritirato la mano. Non posso dirti altro. O forse non voglio. Dovrei raccontarti, altrimenti, qual è l’odore dell’odio.
L¨Europeo
1976,
Número 20
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